Il caffè fa male! Questo è quello che direbbe qualche buontempone leggendo una recente sentenza della Corte di Cassazione che è tornata ad occuparsi della cosiddetta "pausa caffè".
Già in passato, con sentenza n. 4509/2011 la Suprema Corte stabiliva, indirettamente, che la diffusa abitudine italiana serve a rafforzare "le energie psicofisiche utili al migliore
espletamento del servizio" purchè non sia effettuata per motivi personali, in tal caso sarebbe da considerare "concretamente ostativa al
corretto svolgimento dell'attività ".
Più recentemente, la sezione lavoro, con sentenza n. 7819/2013 ha convalidato il licenziamento di un impiegato di banca che prima si era rifiutato di effettuare un'operazione complessa richiesta da un
cliente e, successivamente, a distanza di pochi giorni, aveva lasciato la cassa aperta
ed il denaro incustodito
allontanandosi per andare al bar senza aver prima registrato l'ultima
operazione.
Da qui il
licenziamento, poi convalidato dalla Corte d’Appello di Caltanissetta.
L'impiegato, proponendo ricorso in Cassazione e lamentando l'estrema severità della sanzione, si appellava al fatto che il break aveva causato soltanto dei rallentamenti, senza alcun danno e che in sua assenza, comunque, operavano più casse.
La Cassazione ha bocciato la tesi difensiva ed ha evidenziato che "la
giusta causa di licenziamento di un cassiere di banca, affidatario di
somme anche rilevanti, deve essere apprezzata con riguardo non soltanto
all’interesse patrimoniale della datrice di lavoro ma anche, sia pure
indirettamente, alla potenziale lesione dell’interesse pubblico alla
sana e prudente gestione del credito".
La Suprema Corte ha rilevato altresì che "la censura alla decisione impugnata di non avere tenuto
conto che al momento dell’allontanamento" dell’impiegato "per la pausa
caffè, operavano più casse, non è decisivo perché la presenza di una
pluralità di casse non esclude comunque che il venir meno di una cassa
rallentava le operazioni delle altre sulle quali venivano dirottati i
clienti in fila che comunque erano in numero cospicuo né incide sulla
valutazione della negligenza della condotta del dipendente espressa
nella sentenza di secondo grado".
L’ex dipendente è
stato inoltre condannato a pagare più di 3.500 euro di spese
processuali.